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o tra amici. Un'amicizia davvero alla pari tra due uomini è del tutto innaturale, da un
punto di vista di puro comportamento animale».
«Ma non è una cosa che si può superare?», gli ho chiesto io.
Mi sorprendevano queste considerazioni semiscientifiche che gli venivano ogni
tanto; e mi dispiaceva pensare che implicitamente mi vedesse in un ruolo
subordinato.
Lui ha detto: «Non credo, anche se ci proviamo di continuo. La fatica di
un'amicizia di solito è in questo, no? Nella ricerca di un equilibrio che va
continuamente riaggiustato, nei tentativi di compensare gli istinti di predominio e gli
istinti territoriali e tutti gli altri istinti che scorrono sotto la nostra superficie
razionale».
E dev'essersi reso conto di quello che pensavo, perchè ha detto: «Ma ci sono
anche casi diversi, come tra me e te, dove non c'è competizione perché nessuno dei
due vuole rubare terreno all'altro. Abbiamo tante cose in comune, ma siamo due
animali diversi, per fortuna. Non mangiamo la stessa erba».
«Spero di no», gli ho detto io; e davvero non mi sembrava che ci fossero tensioni
irrisolte tra noi, anche se mi ricordavo la rabbia concentrata di quando mi ero buttato
con il paracadute. Ma era solo l'altra faccia della riconoscenza e dell'ammirazione
che avevo per lui; me ne vergognavo a pensarci.
Poi lui si è fermato davanti a un portoncino verde, ha tirato fuori un mazzo di
chiavi. Sembrava incerto se salutarmi o no; ha detto: «Questa storia che dicevi del
tuo libro, che ti sei messo a riscriverlo».
Gli ho detto: «L'ho riguardato adesso dopo la vacanza, e ci sono un sacco di cose
che non vanno».
Lui aveva un'aria perplessa; ha detto: «Guarda che non è vero. E come dovrebbe
essere».
«Ma è rozzo», gli ho detto io. «Ha un solo punto di vista. Non ha sfumature, è
troppo semplice».
Polidori ha detto: «Non ti far prendere nella trappola anche tu, Roberto. La
complicazione dev'essere dentro, non fuori. Il tuo libro non è affatto semplice».
Ma avevo troppo in mente i suoi libri per credergli, il mio sembrava una specie di
diario sgrammaticato di adolescente in confronto. Mi immaginavo Maria che lo
leggeva, e non c'era niente che avrebbe potuto stupirla o commuoverla o farla
innamorare di me.
Ho detto: «Ci devo lavorare ancora».
Lui ha detto: «Lavoraci, ma non cercare di farlo troppo perfetto. Tanto non c'è
verso di riuscirci, Roberto. Non ci sono libri perfetti. Anche se ci stai sopra dieci
anni, poi quando lo riprendi in mano lo rifaresti tutto da capo. E meglio
dimenticartene e lasciare che vada per la sua strada, e scriverne uno nuovo. E più
sano».
Gli ho detto: «Si, però devo ancora lavorarci. Ho già cominciato».
Polidori ha sorriso; ha detto: «Sei tu che devi essere convinto».
E mi chiedevo a che punto era con il suo libro, se aveva scelto tra la politica e il
matrimonio; quale forma aveva rispetto agli altri che avevo letto; a quali storie
personali attingeva. Sarei stato curioso di sentirgliene parlare, ma la nostra
confidenza aveva ancora dei limiti, anche se si stavano allentando poco alla volta.
Lui ha detto: «Lavoraci senza farti frastornare, però. Taglia fuori tutto quello che
ti distrae, fai il vuoto. Non perdere tempo con Bedreghin o con gli altri alla rivista,
non leggere libri né giornali, non guardare la televisione. Concentrati solo sul tuo
romanzo, più intensamente che puoi».
«Ci provo», gli ho detto io, e mi sembrava che non sarebbe stato facile.
«No», ha detto Polidori. «Se dici che ci provi hai già perso l'anima della storia.
Fallo, semplicemente. Devi crearti una specie di involucro protettivo intorno,
chiudertici dentro con il tuo libro».
«Va bene», gli ho detto, come se si trattasse di farlo contento.
Ci siamo abbracciati; lui ha detto: «E manda dei fiori a quella ragazza, con il
biglietto più breve e malinconico e definitivo che ti viene. Ma non telefonarle, non
farti trovare. Lascia che sia lei a inseguirti, se le interessi».
«Va bene», gli ho detto di nuovo.
Lui mi ha guardato ancora un attimo, con una mano in tasca e l'altra sul pomello
del portoncino, poi è sparito dentro.
Per tutto il pomeriggio ho lavorato al libro, chiuso nella mia stanza alla redazione
di 360. Ho cominciato a riscrivere la prima pagina, e mi sembrava l'unica cosa da
fare. Non è che avessi in mente di renderlo perfetto; volevo farlo diventare meno
semplice e meno diretto, e creare spazio per i sentimenti che mi passavano nel
sangue. Bedreghin e la Dalatri non sono venuti a disturbarmi: erano anche loro chiusi
nelle loro stanze, presi dai loro traffici privati. Stavo abituandomi all'idea della
redazione fantasma, non mi sembrava più un luogo tanto allucinante dove lavorare.
Ogni tanto un'immagine di Maria si staccava dal retroterra della mia attenzione e
veniva a coprirmi i pensieri: un suo sguardo o un gesto, una parola che aveva detto.
Ero immerso nei ricordi della sera prima, e ogni tanto mi sembrava che avrebbero
potuto spingermi attraverso la storia che dovevo riscrivere, ogni tanto la
cancellavano del tutto. Ogni tanto mi veniva l'impulso di prendere il telefono e
chiamarla, ma i consigli di Polidori mi trattenevano. Non sapevo neanche se erano
buoni consigli, e certo non gli avevo raccontato molto di lei, ma cercavo di seguirli.
Alle cinque quando siamo usciti ho salutato la Dalatri e Bedreghin, sono andato
in giro a piedi finchè ho trovato un negozio di fiori. Ho scelto un mazzo di roselline
arancioni, dai bocci sodi e freschi che mi ricordavano le labbra di Maria. La fioraia
mi ha dato il biglietto di accompagnamento con la sua piccola busta, e ho dovuto
pensarci qualche minuto, alla fine ho scritto  Da una distanza irrimediabile,
Roberto .
Mentre venivo via mi sono chiesto se era la frase giusta rispetto alle
considerazioni di Polidori, o invece Maria l'avrebbe trovata melodrammatica e
irritante; se non sarei riuscito solo a ottenere conseguenze davvero irrimediabili.
Bedreghin aveva un doppio messaggio in italiano e in inglese sulla segreteria
telefonica, compito e burocratico come se si aspettasse di essere chiamato da qualche
segretario di ministro o da qualche funzionario della televisione di stato.
Per seguire fino in fondo i consigli di Polidori gli avevo detto: «Se mi cerca una
certa Maria non ci sono».
Non credevo affatto che lei potesse chiamare davvero, ma solo l'idea di non
risponderle mi faceva male al cuore.
Bedreghin mi aveva guardato con i suoi occhi azzurroni pieni di doppi e tripli
sentimenti, aveva detto: «No problem, mister Bata, risponde sempre la macchina».
Venerdì sera eravamo nel momento peggiore della nostra convivenza, tutti e due [ Pobierz caÅ‚ość w formacie PDF ]

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